Dell'app Be My Eyes, un’applicazione che, sfruttando la tecnologia delle video chiamate, permette a chiunque di offrire assistenza visiva in tempo reale a non vedenti e ipovedenti, abbiamo parlato nel 2015, appena uscita sul mercato. L'ideatore danese Hans Jorgen Wiberg ha messo in connessione le persone cieche o ipovedenti con volontari pronti ad aiutare 24 ore su 24, abbattendo così la barriera della paura e offrendo alle persone con disabilità visiva la possibilità di essere un po' più indipendenti. “L’aiuto del vicino ha un limite, - spiega Wiberg a Repubblica - non puoi bussare alla porta per ogni cosa. Con Be My Eyes, invece, sai di trovare persone che si sono registrate proprio per assisterti. Per cui chiedi aiuto, ma allo stesso tempo non ti sembra di farlo”.
COME FUNZIONA. Una volta scaricata l’applicazione, disponibile per iOS e Android, la registrazione può essere fatta come “Non vedente” o “Volontario vedente”. Lato utente con disabilità visiva si preme un tasto e l’applicazione chiama il primo volontario disponibile che parla la stessa lingua. Lato volontario, invece, si può scegliere quando rispondere o meno: se si rifiuta la chiamata, l’applicazione passerà a quello successivo. Incrociando fusi orari e lingue parlate, inoltre, i non vedenti potranno ricevere risposta anche di notte.
UNA RETE GRANDE COME IL MONDO. A stupire però non è tanto il meccanismo, quanto il motore che lo alimenta: il volontariato. Lanciata sul mercato appunto nel 2015, attorno a questa applicazione gratuita è nata e cresciuta una comunità sparsa in 150 paesi, che parla oltre 180 lingue. Oggi la rete di Be My Eyes conta 104mila utenti non vedenti, di cui 1500 italiani, e 1,8 milioni di volontari, 22mila dei quali italiani. Una forbice molto ampia tra i due numeri, che non stupisce il fondatore. “I volontari sono molti di più perché l’applicazione - spiega Wiberg - rende l’aiuto una cosa semplice. A differenza del volontariato tradizionale qui l’impegno è minimo: non serve andare in un posto o tenersi del tempo libero, basta rispondere al telefono”. Nel 90% dei casi le chiamate non vanno oltre i tre minuti, altre durano anche venti secondi. “Si chiama per controllare la scadenza di un cibo, per trovare un oggetto caduto a terra o perso in casa o per farsi descrivere una foto”.
Le testimonianze raccolte sul sito dell'azienda sono davvero tante. Shaun dal Michigan, per esempio, ricorda di averlo usato per trovare da solo la strada il primo giorno di università. “Mi sono sentito indipendente - ha detto -. Sono riuscito ad arrivare dall'altra parte del campus senza che nessuno mi tirasse per il braccio. Avevo una guida invisibile”. Mentre Bryan dall’Arizona racconta di aver avuto paura, in un primo momento, ad usare Be My Eyes. “Temevo che mi avrebbero riso in faccia perché chiedevo aiuto per compiere azioni che per altri sono normali: tipo fare una tazza di tè”. Ma si è dovuto ricredere subito: “I volontari prendono il loro lavoro sul serio e ho capito che non ci sarà mai nulla di troppo stupido per cui chiedere una mano”.
ABBATTERE I MURI. Di solito tra i volontari si registra chi ha un amico o un parente cieco o ipovedente. Ma sono tantissimi anche quelli che hanno avuto il primo contatto con un non vedente proprio grazie a Be My Eyes. “La speranza - spiega l’ideatore dell’applicazione - è abbattere i muri sociali: avendo già aiutato virtualmente, le persone forse saranno meno impacciate nel proporsi per assistere un non vedente ad attraversare la strada”.
Secondo Antonio Quatraro, presidente dell’Unione Ciechi e Ipovedenti Toscana, però c’è anche un altro scoglio da superare: quello della reticenza nel chiedere aiuto. “Si preferisce fare da soli, perché chiedere aiuto pesa. Farlo non è una colpa, né qualcosa di cui vergognarsi, soprattutto se c’è chi non aspetta di fare altro. Tutto sta nel farlo la prima volta. Le applicazioni ci stanno aiutando, ma per rendere il mondo più accessibile a chi ha disabilità visive servirebbe un cambio di mentalità. Tutto ciò che viene creato dovrebbe nascere già per poter essere utilizzato anche da chi non vede o non sente e così via. La tecnologia dovrebbe essere un ponte, ma se non è per tutti, allora diventa un muro”. Nell'attesa che la situazione migliori Wiberg ha fatto prima a “mettere un paio di occhi buoni nelle tasche di chi ne ha bisogno”.
PREMIO. L'app Be my eyes ha vinto il Google Play Awards 2018 nella categoria Best Accessibility Experience, miglior esperienza di accessibilità.
Fonte: Redazione, Repubblica